La versione originale di questa metafora è tratta dall’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), una terapia che ha come scopo quello di aiutarci  a creare una vita significativa mentre accettiamo il dolore e le perdite che la stessa inevitabilmente genera.

Immagina che il tuo sogno sin da bambina sia stato quello di vivere a Sausalito, San Francisco, la città degli artisti. Svegliarti al mattino e assaporare l’odore d’Oceano; vivere la nebbia e il vento dato dallo scontro tra il mare e la terra, stare nel caos di una città multietnica eppure prenderne le giuste distanze per dipingere o scrivere le sfumature delle storie degli ex prigionieri di Alcatraz e dei poveri arrivati in città in cerca della grande occasione.
Per tante ragioni tue e solo tue, immagina di aver dedicato ogni energia per realizzare questo sogno. Hai studiato e lavorato duramente, contrastando circostanze sfavorevoli, per costruire con rinunce e sacrifici quotidiani la tua casa a Sausalito.
Sei consapevole di abitare sopra la faglia di Sant’Andrea; sei consapevole dei rischi che corri nell’abitare lì ma sai anche che potresti essere spazzata via in ogni altra parte del mondo per questioni fortuite e imprevedibili. Un capriccio della Terra o un errore umano incalcolabile e in un istante tutto potrebbe finire.
La tua vita è da favola in una quotidianità certamente fatta di alti e bassi. La felicità è questo, in fondo: una strada con salite e discese ma diretta alla meta raggiungibile solo con la fatica del viaggio.
Poi, però, arriva quel giorno. Quel giorno in cui l’imponderabile diventa realtà e la faglia di Sant’Andrea si trasforma in un incubo. La frattura provoca un terremoto e segue uno tsunami catastrofico. Incendi, distruzione e morte entrano dritti nel cuore della California in un giorno di primavera. E tu, impotente tra gli impotenti, non puoi fare altro che sperare almeno di salvarti.

Sopravvivrai. I danni saranno incalcolabili per te come per tanti abitanti ma, a differenza di altri, tu sopravvivrai.
La sorte si è avventata su quell’angolo di mondo e non c’è giustizia né spiegazione se non quella che ‘sarebbe dovuto accadere, prima o poi’.
La vita è una zona a rischio, in fondo. Se tu avessi abitato nella strada a fianco, tutto questo non sarebbe avvenuto ma se tu fossi vissuta nella casa a fianco, non saresti qui a leggere o ad ascoltare questa storia perché saresti stata tra i dispersi. C’è chi ha perso gli amici, chi i familiari, chi ha perso la casa, chi la vita e chi, invece, è rimasto illeso perdendo poco o niente.

La disperazione è fisiologica in questi casi. Sentimenti di tristezza, di invidia o di rabbia verso il destino e l’universo intero sono comprensibili così come lo sono il pianto e l’immobilità iniziale mentre il mondo intorno continua ad andare avanti incurante di te.
Per un breve periodo tutto questo è regolare, sano, funzionale. Ma dopo: che fare?
A cosa serve continuare a disperarsi? Ad arrabbiarsi e a rodersi per quelli che sono stati risparmiati? Servirà a riavere il passato? Servirà a ricostruire il futuro?

Quando l’allarme sarà rientrato sulla città e la faglia di Sant’Andrea si sarà riassestata, ti troverai di fronte a un bivio: continuare ad abbatterti rimuginando su quello che non hai più, sull’ingiustizia che hai subito oppure iniziare a rimboccarti le maniche per ricostruire un futuro che ancora non c’è e che ha bisogno di tutto il coraggio e la determinazione per trasformarsi in realtà.
Il rischio di ricostruire è alto perché la probabilità che si verifichino altri eventi simili esiste e tu già conosci il dolore della perdita. Ma che fare, quindi: trasferirsi altrove, continuare ad imprecare,  lasciarsi andare, ricostruire…?

Quanto è rischioso tornare a credere in un sogno e quanto lo è, invece, il non crederci più?